Quel bicchiere di rum
L'acquavite che ha incantato scrittori di ogni epoca
La passione per il rum, oltre a essere pressoché imperitura, sembra aver accomunato le personalità più disparate. Sembra quasi di sentire echeggiare, attraverso i secoli, l’apprezzamento di Marco Polo per quell’«ottimo vino di zucchero» che gli avevano offerto in Iran, durante uno dei tanti viaggi verso l’Oriente. Non è un mistero che molti dei più prolifici scrittori esistiti abbiano tratto la propria ispirazione dagli alcolici, tra i quali non poteva certo mancare il rum. Dalle urla bellicose dei pirati, che lo ingollavano mescolato a polvere da sparo poco prima di lanciarsi all’arrembaggio, si è passati, nel giro di qualche anno, a un’eccitazione differente, più votata all’introspezione e al soffocamento dei mali del secolo. Senza dubbio il rum, da degno discendente di quel Rumbuillon o Kill Devil infernale e terribile che nel 1651 intossicava Barbados, per i suoi effetti e per il suo intramontabile fascino è stato in grado di accomunare gli intellettuali ai vari Barbanera, Drake, Morgan e Kidd più di quanto potrebbe sembrare. Anche perché molto spesso era quel bicchiere sempre in mano a rafforzarne lo status di intellettuali geniali e tormentati dalle vicissitudini della vita.
C’era qualcuno che pacatamente osservava le doti rilassanti del rum – come lo scrittore cubano Hernández Catá, che lo definì «il figlio allegro della canna da zucchero», o come Lord Byron che, da adolescente irrequieto qual era stato, dichiarava che «Nulla calma lo spirito come il rum e la religione» – ma c’era qualcun altro che ne era appassionato a tal punto da prenderlo a propria cifra stilistica. Non tanto il drammaturgo Tennessee Williams o il ben noto Charles Bukowski, quanto il pluripremiato Ernest Hemingway che, al grido di «Write drunk, edit sober (Scrivi ubriaco, correggi da sobrio)» intorno al rum costruì la sua vita e le sue relazioni nei vari periodi che trascorse nella capitale cubana.
«My Mojito in La Bodeguita, my Daiquiri in El Floridita» recita un singolare autografo dello scrittore-soldato nella Bodeguita del Medio, il suo ristorante preferito a L’Havana. La dichiarazione, vergata di suo pugno nel 1954, anno in cui si aggiudicò il Premio Nobel per la Letteratura con il suo romanzo Il vecchio e il mare, lascia intendere la passione per i drink, dalla quale nemmeno il diabete riuscì a tenerlo lontano. Ne inventò persino delle varianti: l’Hemingway Daiquiri o Papa Doble, dal soprannome con cui era conosciuto sull’isola, nacque perché al famoso cocktail del Floridita chiese di togliere lo zucchero e di raddoppiare il rum; in seguito, da questo, nacque l’Hemingway Special, al quale viene aggiunto succo di pompelmo. Quella dello scrittore doveva essere una passione davvero smisurata se, sempre nel 1954, lo spinse a fare sosta a Cuneo per comprare alla moglie, che lo aspettava a Nizza, dei cuneesi al rum, cioccolatini ripieni di meringa e fondente aromatizzato al nostro distillato. Non tutti potevano vantare la stessa spensieratezza di Hemingway: per esempio John Cleever, il Cechov dei Sobborghi, in una lettera racconta proprio la sua battaglia col demone del rum. Altre note personalità del panorama letterario amavano invece sorbirsi dei veri e propri beveroni, dove la nostra pregiata acquavite sembra quasi scomparire: è il caso di Virginia Woolf, appassionata di punch al latte, a base di rum giamaicano e portoricano, cognac, latte e altre spezie, o del maestro del mistero Edgar Allan Poe che, con gli otto tuorli dell’Eggnogg, annegava latte, rum e brandy. Già in età vittoriana, Charles Dickens si vantava di essere un ottimo preparatore di punch: la sua ricetta, complessa al punto di prevedere ben tredici passaggi – tra cui spiccava uno scenografico flambé – comprendeva zucchero di canna, tre limoni, due tazze di rum, ¼ di tazza di Courvoisier e cinque tazze di tè nero. E se la fervente cattolica Flannery O’Connor andava pazza per il Coca Cola Plus – di fatto un Cuba Libre con l’aggiunta del caffè – un altro Premio Nobel, Gabriel Garcia Márquez, che pure preferiva il whisky, sembra che servisse ai suoi amici un misterioso cocktail a base di rum, il cui odore ricordava – ahimé – il guava marcio.