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Il sangue gourmet

Sangiovese, sangue di Giove. Si è sempre impiegato ai fornelli il vino bianco e rosso, latore di acidità e altre mille sensazioni. Se ultimamente sono tornate di moda anche vinacce e affini, già familiari ad

Sangiovese, sangue di Giove. Si è sempre impiegato ai fornelli il vino bianco e rosso, latore di acidità e altre mille sensazioni. Se ultimamente sono tornate di moda anche vinacce e affini, già familiari ad affinatori e contadini friulani alle prese con la brovada, ben più diffuso è da tempo immemore l’uso del sangue in cucina, dagli insaccati tipici al civet, fino a capolavori intramontabili come la lepre à la royale. Sangue principalmente di selvaggina o di maiale, il cui uso oggi si scontra con mille paletti, senza smettere di pulsare in tante forme di creatività.

 

Valeria Piccini

Valeria Piccini, grande dame della cucina italiana, ha origini contadine che affondano in spessori ancestrali. Ma la caccia è sempre stata praticata a casa del marito Maurizio Menichetti ed è entrando nella sua famiglia che ogni sangue si è rimescolato. “Quando ero piccola ricordo soprattutto il sangue di maiale. Era mia nonna Eda, detta Ada, a confezionare il ‘buristo’, come chiamiamo in Maremma il sanguinaccio. Ed è una delle cose che mi mancano di più, perché ora si trova solo quello preparato alla senese con i grasselli e la cotenna, mentre lei seguiva una ricetta diversa, forse più antica o tipica del Casentino, da cui proveniva. Non so bene né ho investigato. Ci metteva l’uvetta, i pinoli, il miele, una sorta di pane leggermente sapido, ammorbidito con il brodo, e un po’ di spezia toscana, miscela che non si sa bene cosa contenga, sicuramente cannella, noce moscata, chiodi di garofano e macis. La parte più difficile era riuscire a non rompere i budelli durante la lessatura, poi si faceva asciugare qualche giorno e si arrostiva in padella o sulla brace. Si mangiava a fette sul pane ed era squisito, una specie di dolceforte. Nella mia cucina poi c’è un lungo buco, perché il sangue oggi è difficilissimo da utilizzare. Resta quello di lepre, che ho conosciuto affiancando mia suocera Angela al ristorante. Siccome suo marito Carisio, detto Caino, era un cacciatore, portava spesso delle lepri, che in casa mia non erano mai entrate. Il loro sangue mi è piaciuto così tanto che obbligo i cacciatori a portarmi anche quello, sennò non compro niente. Il sugo fatto solo con la carne è buono, ma non ha la stessa intensità e gli manca la sfumatura ematica, pur nella delicatezza. È quasi una magia: quando lo preparo chiamo i ragazzi a vedere, perché sembra che accada un miracolo. Se fai un ragù servono ore per arrivare alla giusta consistenza, invece col sangue nel giro di pochi minuti il sugo è denso, color cioccolato e lucido. Come legante è fortissimo, tanto che si usa anche nella royale; io stessa a volte lo adopero nelle salse dei secondi, dove però si gestisce male perché non arriva tutti i giorni. La ricetta è quella tradizionale delle pappardelle sulla lepre, come si dice da queste parti, forse perché una volta non si usava mantecare la pasta. Qualche anno fa l’ho variata con una mia interpretazione: le lepre sulle pappardelle. Si tratta di pasta in bianco all’olio, sormontata da una tartare di lombo o coscio di lepre condita con olio, sale, noce moscata e cioccolato e affiancata da un concentrato di ragù delle parti meno nobili, filtrato. Escono in sequenza nel degustazione Sapori di Maremma: prima la ricetta più leggera e delicata, poi quella tradizionale”.

 

Cristiano Tomei

Vulcanico solista della cucina italiana, Cristiano Tomei ha versato nel suo Imbuto a Lucca anche qualche fiotto di fluido vitale. “Il sangue fa parte delle mie memorie gustative. Ricordo che quando ero piccolo e si ammazzavano le galline, si usava saltarlo in padella. Ed era buonissimo, anche se si è perso completamente. Poi ovviamente c’era il maiale, che veniva sacrificato in autunno. Nelle mie zone, la Lucchesia e la Garfagnana, allora veniva preparato un salume cotto a base di testa e di sangue, in funzione di legante, chiamato ‘biroldo’. Ogni norcino aveva la sua ricetta con diverse spezie, il cacao, la cannella, più o meno pepe, che conferivano sfumature incredibili a un mangiare rituale, al tempo stesso intenso e delicato, dalla consistenza scioglievole e dalla nota soave di ferro. Sono sapori che ci riportano a un rapporto primordiale col cibo: il sangue era vita e dell’animale non si buttava via niente. Siccome non poteva essere conservato, era la prima cosa da usare. Oggi si parla sempre di sostenibilità, ma non di consapevolezza culturale. Cucinare il sangue però significa rispettare il sacrificio dell’animale. Sono emozioni che mi sono tornate in mente una settimana fa, quando al ristorante è arrivato un tonno intero. I ragazzi l’hanno pulito, sporzionato e abbattuto. C’erano queste parti scure, dove si rapprende il sangue, che di solito vengono gettate perché amare e ferrose. Io le ho abbattute, poi pensando al biroldo le ho battute al coltello con il cuore e ho unito il condimento del salume, ovvero cacao, cannella, noce moscata, sale, pepe e scorza di limone. Le ho lasciate marinare perché assorbissero i profumi ed è uscita una figata, perché un prodotto di risulta è diventato interessantissimo grazie al sapore amaro, mitigato dalle spezie, e alla mineralità spiccata. Ho pensato di usarlo come accompagnamento di un trancio di tonno al vapore, unendo la parte nobile a quella ‘povera’ per portare la materia all’esasperazione. Il sangue infatti oltre a testurizzare, può fungere da esaltatore e insaporitore dell’ingrediente stesso, come accade nel civet. A livello normativo oggi purtroppo ci sono tantissimi paletti: il sangue fresco di maiale non si potrebbe usare, solo quello disidratato in polvere, che però è un’altra cosa. Io mi sono avvalso della cosiddetta ‘buzzonaglia’, ma fresca, e al palato ho ritrovato tanto del biroldo originale, anche senza cottura. Non a caso il tonno è considerato il maiale del mare. Oggi registro grandi lacune nell’approccio consapevole al cibo, ma le materie prime povere e quelle nobili possono ribaltarsi in un baleno. Non ha senso tenere acceso un disidratatore quattro giorni, quando è possibile attingere da conoscenze acquisite nei secoli, che sono più rispettose della sostenibilità”.

 

 

Giuliano Viaggi

Approdato al Grottino di Gualdo Cattaneo dopo una lunga peregrinazione, anche come chef privato sulle barche, il ligure Giuliano Viaggi ha trovato nella “terra di mezzo” umbra la chiave di una cucina ancestrale e materica, dove il sangue non può certo mancare. “Vengo da una famiglia di contadini, nonni e zii avevano piccole fattorie e sono cresciuto in mezzo a polli e maiali. Mia mamma quando ero bambino lavorava e i miei nonni mi portavano in giro per macellerie, sui pescherecci e nel mercato di La Spezia, che una volta era bellissimo. Mi facevano mangiare anche il sanguinaccio in ogni modo, dolce, salato, con i pinoli e ricordo che mi piaceva sempre. È stato così che le materie prime sono diventate la mia religione, anche quando sono andato a lavorare da ‘mercenario’ sugli yacht, per far star bene la famiglia, cogliendo l’occasione per conoscere altre culture. Personalmente non sono mai riuscito a sposare una cucina troppo sofisticata, perché l’anima dei miei nonni mi è rimasta dentro. Piuttosto applico un’esasperazione tecnica che porta il gusto a un’emozione, anche nei piatti che sembrerebbero scontati. Per quanto riguarda il sangue, ho iniziato a usarlo a Fosdinovo, dove già avevamo gli animali. Quando uccidevamo i maiali o i polli, mi sono cimentato per curiosità, documentandomi: ho scoperto che va usato freschissimo, evitando la coagulazione. Cosicché l’ho sempre aggiunto ad altri composti liquidi, monitorando le temperature. Quando poi mi sono innamorato dell’Umbria, mi sono focalizzato sulla brace, in un’isola dentro il ristorante da me progettata, e sull’agnello, che compro da una macelleria di Spoleto. Si tratta di esemplari allevati allo stato semibrado di razza maremmana, che utilizzo interamente. Ottenere il sangue tuttavia non è facile, perché bisogna avere contatti diretti col mattatoio, che oggi me ne fornisce qualche litro. Lo uso per una ricetta di collo smontato e farcito, passato sulla brace. Il ripieno è costituito da fegato, cuore e animella, più una specie di salsa di marinatura con le erbe spontanee in contrasto e il sangue. La cottura avviene nella rete di agnello, che potenzia la maillard, sulla brace di riflesso, in modo da ammorbidire dolcemente le fibre. Il risultato è un collo burroso e succulento, con il fegato dentro fondente come foie gras. Poi ci sono le stesse erbe soffiate in padella, con poco olio e aceto, il purè di patate di montagna e una salsa di cervello, latte di pecora, tartufo nero e ancora sangue, che veicola un messaggio di rispetto dell’animale, dentro congloba gli altri elementi, mentre fuori porta dolcezza”.