fbpx

RIVISTA IN PDF    |    INSERTI

Home / Storie  / La storia di un vino sanguigno

La storia di un vino sanguigno

Un atto notarile del 1672 ritrovato nell’Archivio di Stato di Faenza è tra i primi documenti che citano il nome Sangiovese: una signora proprietaria del podere Fontanella posto a 400 metri di altitudine in Casola

Un atto notarile del 1672 ritrovato nell’Archivio di Stato di Faenza è tra i primi documenti che citano il nome Sangiovese: una signora proprietaria del podere Fontanella posto a 400 metri di altitudine in Casola Valsenio, cede in affitto una vigna al parroco di Pagnano, riservando alla propria famiglia tre filari di Sangiovese. Con molta probabilità la coltivazione del vitigno era andata attestandosi a cavallo del crinale appenninico tosco- romagnolo ad opera dei monasteri benedettini vallombrosani, dove la clausura ha sicuramente motivato l’allevamento della vite per il vino per le cerimonie religiose e per quella “dose giornaliera del monaco” stabilita da San Benedetto nella sua Regola. Qui il Sangiovese ha mostrato la capacità di prosperare, con le giuste cure, anche nei terreni montani. (Sangiorgi e Zinzani, 2017). Viene citato con il nome di Sangiogheto dal celebre agronomo fiorentino Giovanvettorio Soderini nel suo “Coltivazione toscana delle viti e d’alcuni alberi” (Firenze, I Giunti, 1622): “Il Sangiocheto o Sangioveto è un vitigno rimarchevole per la sua produttività regolare… è sugoso e pienissimo vino, un vitigno che non fallisce mai”. Ed è raffigurato come una delle principali varietà di uva prodotte nel Granducato di Toscana nel dipinto del 1700 dal titolo “Uve” di Bartolomeo Bimbi (1648-1729). Nel 1726 Cosimo Trinci, famoso agronomo pistoiese, scrive nell’opera “L’Agricoltore sperimentato”: Il San Zoveto è un’uva di qualità bellissima e ne fa ogni anno infinitamente moltissima”. Nel 1773 Giovanni Cosimo Villifranchi, botanico fiorentino, lo segnala nella “Oenologia Toscana”: “Sopra i vini ed in specie toscani il S. Gioveto, uva rossa quasi nera, tonda, di mediocre grossezza, buccia dura, suole essere abbondante e non fallisce quasi nessun anno… fa il vino molto colorito e spiritoso…”. Nell’Ottocento Giorgio Gallesio, nella “Pomona Italiana”, parlando del suo viaggio in Toscana del 1833 osserva: “Il Sangioveto è un’uva tutta toscana e forse la più preziosa delle uve di questo paese tanto caro a Bacco”. E lo stesso barone Bettino Ricasoli, siamo nel 1872: “… Mi confermai nei risultati ottenuti già nelle prime esperienze, cioè che il vino riceve dal Sangioveto la dose principale del suo profumo e una certa vigoria di sensazione; dal Canajuolo l’amabilità che tempera la durezza del primo, senza togliergli nulla del suo profumo per esserne pur esso dotato; la Malvagia, della quale si potrebbe fare a meno nei vini destinati all’invecchiamento, tende a diluire il prodotto delle due prime uve, ne accresce il sapore e lo rende più leggero e più prontamente adoperabile all’uso della tavola quotidiana…”. Per la Romagna nel 1977 il Tribunato Vini di Romagna, l’Ente Tutela Vini Romagnoli, la Società dei Passatori e i Sommelier d’Italia collocarono sul Monte Giove un cippo con questa iscrizione: “Qui sul colle/che di Giove ha il nome/oggi XXIX Ottobre MCMLXXVII/la Romagna dei Vini / e dei vigneti / recinge la fronte del Nume / con l’aureola / del San-Giovese / rivendicandone /con certezza di fede / la feconda primogenitura”. Le prime citazioni si hanno nell’area faentina-imolese già nel corso del Seicento e dopo quelle di Faenza e Casola, troviamo nel 1680 nell’archivio capitolare di Modigliana un vino “S. Giovese”, poiché i religiosi probabilmente si rifacevano al santo. Nel 1722 il ferrarese Girolamo Baruffaldi ricorda “quell’indomito imolese spiritato Sangiovese” e alcuni anni dopo i conti Ferniani di Faenza impiantano una vigna di Sangiovese alle Case Grandi di Errano. Nel 1744 a Solarolo la gabella di transito prevedeva il pagamento del dazio per il Sangiovese, perché prezioso e molto apprezzato, e nel 1745 il parroco di San Biagio Vecchio, nei pressi di Faenza, subisce un furto e nella denuncia precisa: “E poi mi hanno anche bevuto un fiasco di Sangiovese che tenevo su un asse nella scala che andava in cantina”. Giovan Battista Borsieri, clinico bolognese, dopo alcuni anni di esperienze in Toscana fu chiamato a Faenza a metà del Settecento per fronteggiare un’epidemia, consigliando di bere: “Il celebre vino di Romagna il quale dicesi Sangiovese o anco dell’Etrusco che prende il suo nome dal Monte Poliziano”, cioè il Montepulciano. Nel ricettario di Alberto Alvisi, cuoco del cardinale Gregorio Barnaba Chiaramonti, divenuto poi papa col nome di Pio VII, vengono elencati piatti a base di Sangiovese e vino talmente apprezzato che sul finire del Settecento una vigna di Sangiovese fu impiantata nei giardini del Vaticano. Nella Romagna centro orientale il Sangiovese compare solo nella prima metà del Settecento e uno dei primi a citarlo nelle sue celebri memorie scritte in francese è Giacomo Casanova il quale, nell’estate del 1749, capitando nella campagna cesenate e assaggiando del Sangiovese, loderà il Saint-Jevese!

Antropologa, Scrittrice, Giornalista, Critico Enogastronomico, Blogger