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Ristorazione Family friendly: un problema o un’opportunità?

I grandi chef puntano sui più piccoli

È la storia infinita della ristorazione. Un loop ripreso puntualmente da media e dai social che amplifica il grido di dolore dei ristoratori, stufi di accogliere famiglie con bambini al seguito. Tanti i locali, da Nord a Sud, che hanno esposto all’ingresso l’avviso «No kids». Incivile, illegale o semplicemente provocatorio? La questione baby clienti è complessa, irrisolta e pericolosa. Troppo spesso si è arrivati alla violenza verbale, ma anche a risse con relative denunce. Ogni tanto uno spiraglio di saggezza: «Sento ancora dire da clienti che in alcuni ristoranti “blasonati” non fanno entrare i bambini! Credo che sia una vergogna! … Aprite le porte ai bambini che sono il nostro futuro e smettetela, cari colleghi, di fare i falsi moralisti e pensare solo al dio danaro». Questo è il post dello chef Ilario Vinciguerra dell’omonimo ristorante di Gallarate, apparso qualche giorno fa su Facebook. Come lui, alcuni chef blasonati puntano sull’accoglienza degli ospiti del futuro.
Alessandro Borghese ne Il lusso della semplicità, propone un percorso al 100% a misura di bambino, dal menu alla mise en place e ai servizi igienici petit. La sua idea è di coccolare i bimbi con ricette nuove e accattivanti e, perché no, fidelizzare la futura clientela.
L’antesignano è stato Gianfranco Vissani che, grazie alla lungimiranza del figlio Luca che cura la sala, ha messo a punto, già diversi anni fa, un vero e proprio menu esperienziale ideato sulle necessità di un ospite esigente come il bambino. Gli esempi sono tanti ma sempre troppo pochi.
Andare al ristorante con figli al seguito non può essere una gara a ostacoli in cui schivare i locali Child-free (vietati ai bambini) per approdare ai Family-friendly dove i bambini sono sì, accettati ma spesso vengono relegati in stanze da gioco dove intrattenersi fino allo sfinimento. Il ristorante, in questo caso, diventa un luogo di intrattenimento in cui il cibo, almeno per i più piccoli, si riduce alle solite pennette, cotolette e patatine con Coca. Menu fisso che, di prassi, da Nord a Sud, dalla pizzeria allo stellato, è presentato alle famiglie. Spesso non ce n’è nemmeno bisogno. Questo è dagli anni Sessanta lo standard di cibo e accoglienza per clienti paganti che non hanno voce in capitolo, una tradizione: sì, anche questa è una tradizione ma da cancellare dalla storia della ristorazione italiana.

 

 

Lo aveva capito subito il geniale Gualtiero Marchesi che, quando gli sottoposi la questione “bambini al ristorante”, rispose che occorreva intervenire subito perché ignorando le esigenze dei più piccoli li conduciamo all’aberrazione del gusto: «Il futuro sarà complicato per i palati diseducati che, non solo non apprezzeranno l’alta cucina, ma nemmeno riconosceranno la cucina italiana».
Su queste premesse, grazie a Gualtiero Marchesi e all’Alma, a Francesco Tonucci, ideatore della Città dei bambini e delle bambine, e a Giorgio Calabrese, medico nutrizionista, nacque, nel 2005, la Carta dei diritti alimentari per la crescita.
«Sì, ma i bambini mangiano solo pennette-cotolette- patatine, pizza wurstel e patatine!»; «Sono i genitori che ordinano sempre le stesse cose e poi non vogliono spendere molto…»; «Come intrattengo i bambini che, dopo aver mangiato, disturbano la sala?»
Queste solo alcune contestazioni che vengono dagli chef e dai maître. Da queste obiezioni, grazie a un team di esperti, è nato il metodo di formazione professionale Slurp Kids – La ristorazione a misura di bambino, che fornisce gli strumenti per accogliere le famiglie e istruisce addetti di sala e chef affinché siano preparati ad affrontare una clientela ritenuta problematica. L’obiettivo è una sala sotto controllo e clienti soddisfatti; basta sovvertire il problema per trasformarlo in un’opportunità di successo mediatico e sociale, oltre che economico.

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Giornalista e Founder Slurp Kids