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Gli orapi, una specialità della cucina montanara

Lungo l’Appennino umbro-marchigiano e abruzzese sono un accompagnamento perfetto per la carne, in particolare con la cacciagione

Il Chenopodium Bonus-Henricus (nella nuova nomenclatura Blitum bonus-henricus Rchb.), appartiene alla famiglia delle Amaranthaceae ed è conosciuto con i nomi volgari di orapo, farinello buon-enrico e spinacio selvatico. Il termine Chenopodium proviene dal greco chén=oca e da pódion=piede, in riferimento alla forma delle foglie. L’epiteto specifico bonus-henricus, secondo alcuni testi, è stato invece attribuito in onore di Enrico IV di Navarra (1553-1610), protettore dei botanici, per il successo che questa pianta ebbe durante il suo regno, salvando dalla carestia la popolazione. Si tratta di una specie originaria delle zone montuose dell’Europa, anche se è presente in altre parti del mondo, dalla Siberia all’America del nord. In Italia cresce su tutto il territorio, preferendo l’Appennino umbro-marchigiano e abruzzese. Il suo habitat è quello delle malghe, dei luoghi incolti o ruderi, dove cresce soprattutto in aree con abbondanti concimazioni azotate, dai 500 fino a 2100 m s.l.m. Il substrato preferito è sia calcareo sia siliceo, con pH neutro. Consiglio di andare a cercarlo lungo i recinti erbosi dove sosta il bestiame.
Il buon enrico o orapo è ritenuta una delle specialità più prelibate dell’eccellente cucina montanara umbra, marchigiana e abruzzese. Il merito è della sua varietà organolettica, che va dal classico retrogusto ferroso e amarognolo degli spinaci a un sapore sapido e deciso, con vaghi sentori piccanti. Tale ricchezza al palato si associa alla sua ricchezza di nutrienti: è ricco di vitamine B1, B6, B12, C, E, e sali minerali come ferro, calcio, fosforo, zinco, potassio, rame e sodio, oltre a carotene, betacarotene, clorofilla e mucillagini. I suoi effetti benefici si riscontrano su diversi organi, apparati e funzioni, dal tono muscolare all’equilibrio intestinale, dal pancreas al sistema cardiocircolatorio.
L’utilizzo degli orapi, nel ricettario della tradizione dell’Appennino Centrale, fa riferimento a una tradizione millenaria, povera e rurale, fra agricoltura, pastorizia e nutrimento principale della transumanza. Vengono consumati crudi, in semplici insalate con sale e limone, e cotti, in robuste minestre a base di cereali e legumi. La più usata è la combinazione con riso e fagioli. La loro ricchezza di nutrienti è in grado di sostituire in modo eccellente l’apporto nutritivo della carne, raramente presente nelle tavole di pastori e contadini. Anche le ricette che prevedono l’utilizzo di spinaci coltivati possono prevedere la loro sostituzione o affiancamento con gli orapi. Nelle paste, così come nei fritti (arancini, panzerotti o altro), gli orapi donano al piatto un sapore più deciso, tipico delle terre che li producono. Lungo l’Appennino umbro-marchigiano e abruzzese, tuttavia sono famosi per essere un accompagnamento perfetto per la carne, in particolare con la cacciagione. È così che nello stesso piatto vengono a trovarsi due prodotti dal sapore intenso e deciso, per palati che non amano le mezze misure. Ma ogni chef può cimentarsi anche nella preparazione di creme e vellutate, da abbinare a ogni tipologia di piatto, sia come accompagnamento sia come piatto unico, ad esempio di crostini.
La raccolta degli orapi si fa generalmente tra maggio e giugno, ma in molte località, ad altezze intorno ai 2000 metri, si possono trovare fino ad agosto. Essendo una pianta che cresce a perenne contatto con la neve, sopporta benissimo processi di conservazione come il surgelamento. Infatti molti ristoranti della fascia Appenninica umbro-marchigiana abruzzese, potranno servire piatti con orapi anche in periodi al di fuori della stagione della loro crescita.
Per il loro contenuto di acido ossalico è sconsigliato il consumo a chi soffre di calcoli, gotta, artrite e reumatismi.

 

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Presidente Accademia Piante Spontanee