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Dal food al cibo di guerra, dalle stelle Michelin al vitto in trincea

Una storia tutta da scoprire

Potremmo dire food in tutte le salse, tanto se ne parla oggi, e se dovessimo stilare una graduatoria dei termini più citati, più ascoltati in TV o usati in tante rubriche, la parola food (uno degli innumerevoli anglicismi di cui siamo sommersi), sarebbe sicuramente ai primi posti. Come del resto le trasmissioni che hanno fatto del food un cavallo di battaglia assolutamente imbattibile in tutte le reti e in ogni canale. Parliamo di un settore particolarmente importante nel nostro Paese considerato che il pianeta cibo, la enogastronomia e tutto l’agroalimentare, rappresenta un’eccellenza italiana e, con il Made in Italy, il nostro più conosciuto e apprezzato biglietto da visita in tutto il mondo. Siamo la patria dei migliori chef stellati, dei campioni mondiali della pasticceria creativa, siamo gli inventori della dieta mediterranea, degli spaghetti, della pizza e di tutto un sistema virtuoso che gravita attorno al cibo, al gusto e alla raffinatezza. Da tempo assistiamo con soddisfazione alla celebrazione universale della cucina italiana, all’italian food come arte, la food- art italiana che non è, come potrebbe apparire, esaltazione dell’effimero, ma rappresentazione di un pezzo non secondario del nostro identikit nazionale contemporaneo e della nostra economia.
Ma accanto agli scenari riguardanti il gusto, l’invenzione, il lusso, lo spettacolo di cui oggi il food è la vivace espressione, vi sono percorsi diversi che riteniamo particolarmente interessante affrontare; strade che ci portano a ritroso nel tempo, lontano dagli scenari attuali, a contatto invece con realtà nelle quali il cibo era soltanto nutrimento, alimentazione, più spesso sopravvivenza. Un itinerario che mette in luce, sul tema di cui parliamo, l’abissale differenza che la medesima materia può assumere in condizioni e vicende umane diverse.
Nelle recenti celebrazioni del Centenario della Grande Guerra, si è molto parlato dei nostri soldati al fronte, delle condizioni di vita nelle trincee, della necessità dell’importanza di dover fronteggiare situazioni estreme, in condizioni di gravi difficoltà logistiche o in stato di impellenti necessità e di pericolo. In quelle condizioni il cibo e l’alimentazione hanno avuto un’importanza vitale così come la logistica dei rifornimenti, il trasporto, la distribuzione, il consumo. Parliamo addirittura di milioni di soldati, per i quali era impresa oltremodo ardua approvvigionare il cibo necessario al fabbisogno energetico, tanto più alto considerate le fatiche e l’impegno del combattimento in condizioni climatiche pressoché impossibili. L’organizzazione logistica doveva anche fare i conti con le difficoltà del trasporto in alta montagna e il costante pericolo del fuoco nemico.
Per il soldato il food si chiamava rancio, che formava la base della spartana dieta del soldato, una dieta che appare a una distanza siderale dal food del nostro presente, di cui parlavamo in premessa. Quando si riusciva a distribuirlo, nelle condizioni avverse indicate che impedivano spesso anche l’attività delle cucine da campo e del trasporto, il rancio ordinario era costituito, come primo, da una razione di pasta brodosa (trasportata in marmitte ermeticamente chiuse in grado di conservare un minimo di calore) alla quale si aggiungevano: un pezzo di carne bollita, una pagnotta di pane, un pezzo di formaggio (saltuariamente), una modesta quantità di vino, una tazza di caffè. Il rancio veniva servito una volta al giorno con mezzo litro d’acqua e veniva trasportato in trincea a dorso di mulo lungo camminamenti protetti (se ne vedono ancora in Trentino). Il trasporto avveniva generalmente di notte, tra le ore 22.00 e le 24.00, ore meno rischiose per i soldati comandati in servizio, detto di corvè-rancio. Se il vettovagliamento non arrivava nei tempi previsti, era molto probabile che la colonna dei rifornimenti fosse stata attaccata dal nemico nelle retrovie della prima linea. E questo rappresentava un ulteriore problema per gli uomini del Comando sussistenza, preposti a quel settore vitale.
Al rancio normale, in occasione di operazioni militari speciali, veniva aggiunta la cosiddetta razione da combattimento che conteneva un arricchimento proteico e calorico, e un plus di razioni di gallette o altro. Il soldato al fronte disponeva di un utilissimo tascapane in tela grezza impermeabile dove poter riporre oggetti, cibo secco o altro. In dotazione al soldato, la celebre gavetta in alluminio per consumare il rancio, da usare anche come pentolino pe riscaldare le razioni in scatola e un set di coltello, forchette e tazza, insieme a un pacchetto di primo soccorso. Ogni reparto disponeva di cosiddette casse di cottura con fornello tipo pentola a pressione, per il caso che ci fosse più ampia disponibilità di cibo. Per le truppe dislocate in alta montagna veniva fornito un supplemento di lardo o pancetta, di latte condensato e biscotti.
Della vita dei nostri combattenti in trincea, una straordinaria testimonianza viene da un celebre libro di Emilio Lussu Un anno sull’altipiano, nel quale viene descritta in dettaglio la vita dei nostri valorosi soldati nell’inferno della Prima Guerra Mondiale. Quando non si poteva assicurare il cibo con le cucine da campo, si provvedeva distribuendo ai soldati scatolette di latta da 220 grammi. Risulta che in una certa fase del periodo bellico ne furono distribuite complessivamente ben 200 milioni. Napoleone Bonaparte sosteneva che un esercito «marcia sul suo stomaco» e di conseguenza curava molto la logistica del vettovagliamento. Usava un brevetto francese per la conservazione di prodotti alimentari bolliti, che prevedeva l’inscatolamento in lamiera o vetro. Un brevetto che poi Napoleone vendette agli inglesi. Sulla base di questi precedenti, durante la Grande Guerra diverse ditte private si specializzarono, garantendo forniture, alimentari e non solo, di qualità. Di quelle aziende alcune sono ancora esistenti sul mercato.
Il Commissariato militare italiano si approvvigionava presso la Cirio per forniture di legumi o dalla Fratelli Sada per forniture di carni (manzo alla militare, un antipasto di qualità denominato Trento e Trieste) o di filetti di acciughe, antipasti o conserve varie che avevano spesso le più svariate denominazioni patriottiche. Non mancavano mai le famose gallette e, talvolta, supplementi di cioccolato e grappa. L’alimentazione in scatola era comunque in alternativa al rancio ordinario. Nonostante gli sforzi organizzativi della Sussistenza militare (un Corpo benemerito, in tempo di guerra), si rilevavano spesso problemi di carenze alimentari nella truppa e, in particolari condizioni, molti soldati pativano addirittura la fame, fenomeno grave che, nel caso dei soldati in prigionia, era purtroppo molto frequente e raggiungeva punte di autentica disumanità.
Nonostante la Convenzione dell’Aia 1907 avesse imposto per i prigionieri lo stesso trattamento, anche alimentare, dei propri soldati, assicurando almeno un regime di sussistenza minimo (costituito da 250 grammi di pane, 100 g di pasta e 80 g di carne con verdure o frutta e caffè), quella normativa non veniva rispettata quasi mai (anche per carenze logistiche) e i prigionieri venivano alimentati con bucce di patate o foglie di cavolo appena scottate e, per la scarsità di farina, con poco o nulla di pane. Prigionia durissima dei nostri militari in Austria o Germania dove, nei campi di concentramento, molti morivano proprio per fame o deperimento fisico da carenze alimentari.
Purtroppo anche i nostri soldati dislocati sul lunghissimo fronte interno patirono la fame (forse meno degli Austriaci che avevano più gravi problemi di logistica), e ciò particolarmente nell’ultimo anno di guerra. Tanto che il governo dovette procedere con decreti d’urgenza per la acquisizione e il contingentamento di lotti di farine, cereali e legumi da destinare alle forniture militari. In quelle difficili circostanze si verificarono, come hanno riportato i reduci, casi di avvicinamento tra soldati nemici e addirittura baratti tra i soldati italiani e austriaci anch’essi in gravi difficoltà di rifornimenti ben peggiori delle nostre. Si barattava il pane contro sigarette, cioccolato contro tabacco da pipa. Piccole consolazioni in una guerra lunga e spietata come fu la Prima Guerra mondiale, che costò tante giovani vite e tanto dolore.
Ma mi rendo conto che, a questo punto, possa giovare una breve pausa di riflessione e tornare almeno per un momento alle vetrine e alle prelibatezze della nostra raffinata gastronomia contemporanea, alla dolcezza della food-art o alla iridescente pioggia delle Stelle Michelin. E ciò anche come auspicio per un futuro davvero migliore.

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Ufficio stampa Bersaglieri