Era già addomesticata nell’antico Egitto. In Grecia, l’oca assunse presto il ruolo di animale sacrificale fornendo piume e carne a buon mercato. A Roma la ingrassavano (soprattutto con i fichi, al punto di dare luogo al termine italiano fegato, il cui etimo è iecur ficatum, cioè ingrassato con i fichi) tant’è che il fegato era considerato una prelibatezza. Il carattere guardingo di questo animale si dimostrò decisivo per i Romani durante il tentativo dei Galli di espugnare il Campidoglio nel 390 a.C. Si credeva che la carne d’oca aumentasse la libido e la sua bile era considerata a quei tempi una sorta di Viagra. Questo nostro animale veniva associato a Venere (Afrodite) e a Marte (a motivo dell’episodio delle oche del Campidoglio?!), ad amore (Eros) e al dio fallico della fertilità Priapo.
C’è anche da rilevare che nelle culture extra mediterranee il volo delle oche selvatiche affascinava gli sciamani delle tribù siberiane, i quali in stato di trance si sentivano trasportare nell’etere assieme a loro. L’usanza di consumare, nella stagione invernale, carne d’oca durante i banchetti e le feste poggia su motivazioni leggendarie. Innanzitutto la leggenda di San Martino, il quale − per modestia − non volle farsi benedire dal vescovo e si nascose nel recinto delle oche, dove però lo starnazzo agitato degli animali tradì la sua presenza. Il banchetto (con le oche) di San Martino viene (in modo non scientifico!) interpretato come una sorta di vendetta sull’animale!
Anche un’altra popolazione del Mediterraneo, quella ebraica, ha dei riferimenti culinari con l’oca: ad esempio, l’helsl è un piatto tradizionale composto con il collo riempito di erbe, pangrattato, frattaglie sempre dell’oca, carne e altro e poi fritto a lungo. Nasce come piatto povero, ma ai giorni nostri è molto difficile trovarlo se non nei migliori ristoranti di Israele.
Proprio a questa leggenda sembra collegato uno dei piatti tradizionali del natale in Germania: il Weihnachtsgans, cioè l’oca di Natale. Viene solitamente farcita con mele, castagne, cipolle o prugne e condita con sale, pepe e, a volte, artemisia e maggiorana.
La miscela fra la tradizione culinaria degli Ungari con i robusti influssi tedeschi e slavi ha creato quella che è senza dubbio la più cospicua cucina a est del fiume Reno. Dopo il mitico gulyás, al secondo posto tra i capisaldi della cucina ungherese troviamo l’oca in tutte le sue declinazioni (compreso il paté di fegato). A seguire il rantás (un roux, cioè mix di burro e farina e varie spezie per irrobustire minestre e passati di verdura) e la pasticceria. Tra l’altro, ricordiamo che l’Ungheria è il maggior allevatore europeo di oche, e di grande qualità.
Non solo in gastronomia! L’oca compare spesso nelle leggende, nelle fiabe (ad esempio L’Oca d’oro dei fratelli Grimm) e nei modi di dire popolari. Il detto proverbiale ferrare le oche (fare cose inutili), usato in alcune regioni, va messo in relazione con la foratura delle membrane natatorie delle zampe allo scopo di marcarne la proprietà (Irlanda), o con l’uso di immergere le loro zampe nella pece per proteggerle quando le si faceva camminare per lunghe distanze (Galles).