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Oca selvatica

Cenni storico-sociali e conservativi

Ma chi l’avrebbe detto che la domesticazione dell’oca selvatica avrebbe consentito al Comandante Furio Camillo di divenire il vate precursore di quella scienza che in tempi moderni definiremmo intelligence militare? Un sistema, cioè, che sia in grado di garantire ai decisori gli elementi di informazione necessari a prendere le opportune decisioni per la pianificazione bellica e che, maggiormente affinato, consentì a Roma stessa di vincere molte altre campagne sino al periodo di massima espansione dell’Impero (Traiano 98-117 d.C.). Beninteso, le oche vigilanti anche quando i cani dormivano erano il risultato di un lungo percorso di domesticazione della specie selvatica, iniziato nel Neolitico. Si ritiene essere stata una delle prime specie di uccelli ad essere addomesticata (è menzionata già da Omero e appare con sacralità negli affreschi egizi), ha dato origine a una moltitudine di razze tra loro interfeconde, con forme e variazioni cromatiche anche molto diversificate (Anser anser domesticus è l’oca selvatica addomesticata dall’uomo a scopo di produzione di carne, uova, piume per piumini e cuscini, ecc.).
L’elemento più distintivo tra individui di origine domestica, semi domestica o ferale (cioè individui di ritorno in natura dopo la domesticazione) e quelli selvatici è, in genere, il colore delle zampe: arancio nei primi e rosa-carnicino nei secondi. Le forme domestiche, inoltre, possiedono maggiori dimensioni e una minor abilità nel volo, un becco più massiccio e robusto, petto e addome prominenti e asse del corpo non orizzontale. L’oca selvatica (Anser anser) fu classificata tassonomicamente da Carlo Linneo nel 1758; appartiene all’Ordine degli Anseriformes e alla Famiglia degli Anatidae. Il piumaggio è grigiastro (da qui prof. Franco Perco l’ha rinominata Oca grigia), nell’insieme piuttosto uniforme, che sfuma in variazioni brune sul dorso. I bordi delle penne evidenziano tipiche strisce chiare; la coda è poco pronunciata, il sotto coda e il ventre sono bianchi o castani, verso il petto e il collo si nota una tendenza al grigio chiaro.
Nella nostra penisola, in tempi storici, l’oca selvatica nidificava nelle zone umide d’acqua dolce del Ravennate, nel padule di Castiglion della Pescaia e nell’entroterra della provincia di Grosseto. Nelle paludi di Ravenna, nel 1849, è possibile che anche il Comandante Garibaldi (cacciatore e pescatore ma anche cofondatore della Società Protettrice degli Animali nel 1871), Anita, il frate Ugo Bassi e il tribuno di Trastevere Ciceruacchio abbiano utilizzato oche mansuefatte, oltre ad altri animali a supporto della trafila volontaria locale (staffette e informatori), come sentinelle per nascondersi dagli austriaci dopo la resa della Repubblica romana.
È molto probabile che in età moderna e risorgimentale, malgrado il bracconaggio condotto con le prime ed elitarie armi da fuoco utilizzabili per la caccia e la più diffusa pratica del levare le uova e i piccoli dai nidi per domesticazione (pratica tuttora vietata dall’art. 3 della legge 157 del ’92), la specie selvatica fosse comunque più diffusa in Italia rispetto a quanto documentato in letteratura, sommando idealmente i migratori con i nati in loco segnalati dai pochi e antesignani naturalisti dell’epoca, tra cui il Conte Giuseppe Ginanni (Ravenna 1692-1753). Questi fu zoologo botanico e naturalista, di istruzione clericale, ma di approccio scientifico e tassonomico di tipo empirico e analitico. Non poteva essere un aldrovandiano, essendo molto osservativo, ordinato e schematico nelle classificazioni e poco incline alle pur positive deviazioni del Padre della Storia Naturale di cui la Monstrorum historia rappresenta l’apice. È ben vero peraltro che proprio grazie al suo lavoro del 1737 – Delle uova e dei nidi degli uccelli – Ginanni riscuote il favore del mondo accademico dell’epoca ed entra a far parte dell’Istituto delle Scienze di Bologna, che raccoglieva tutta l’eredità scientifica di Ulisse Aldrovandi (1522-1605). Il nipote Francesco Ginanni (Ravenna 1716-1766) gli fu valido seguace in vita e gli curerà l’edizione postuma di una serie di ricerche sulla vita animale e vegetale completando e pubblicando come autore la postuma Istoria civile e naturale delle pinete ravennati, edita nel 1774, nella quale si trovano anche notizie sui volatili e le oche selvatiche (Ginanni le definisce silvestri).
L’oca selvatica è specie politipica a corologia eurasiatica con due sottospecie distinte e, di norma, attualmente accettate dalla maggior parte degli autori: l’A. anser anser (Linnaeus, 1758), con areale distributivo in Europa nordoccidentale e occidentale (Oca selvatica occidentale) e l’Anser anser rubrirostris (Swinhoe, 1871), tipica dell’Europa orientale, sud-orientale e Asia (Oca selvatica orientale). Le due popolazioni sono tendenzialmente separate ma con frequente possibilità di scambio genico e, di conseguenza, variazioni geografiche con gradiente in senso longitudinale. È la più grande oca osservabile in Italia allo stato selvatico da cui deriva la maggior parte delle razze domestiche. A distanza e con luce sfavorevole può essere confusa con le altre oche grigie del genere Anser, ma con buona visibilità è facilmente riconoscibile per le tinte relativamente chiare, per il becco privo di parti nere e le zampe di colore rosa; in volo, sia da sopra sia da sotto, il carattere più diagnostico è la chiazza biancastra sulla parte anteriore dell’ala, dovuto alla colorazione delle copritrici, ben visibile anche a distanza.
La forma occidentale è separabile per il becco di colore arancio (eventualmente rosa alla base) e le minori dimensioni; la forma orientale è tendenzialmente più pallida, con il becco decisamente più allungato e meno tozzo, di colore rosa-carnicino. È bene ricordare, comunque, che con il sole basso all’orizzonte (quindi soprattutto nei mesi invernali), le colorazioni rosa/arancio del becco possono tra loro confondersi. In entrambe le sottospecie la lunghezza è compresa tra i 75 e gli 85 cm, mentre l’apertura alare è tra 150 e 170 cm con alcuni soggetti che possono raggiungere i 190/200. È specie prevalentemente erbivora, predilige piante palustri ma anche granaglie, radici, insetti, lombrichi, lumache e, vessata quaestio per il mondo agricolo, cereali appena germinati o in fase di spigatura con la cariosside a maturazione lattea (questo asporto sulle colture agrarie viene in genere riconosciuto a contributo, su istanza, dalle Regioni). I due sessi non presentano differenze morfologiche marcate, fatta eccezione per le dimensioni di poco superiori nel maschio, mentre i giovani sono riconoscibili dal piumaggio più scuro. Il nido in genere viene allestito in zone ripariali nascoste; tra marzo e maggio la femmina depone tra le 4 e le 6 uova (la cova è di un mese circa); il maschio collabora ampiamente alla cova e i pulcini sono già in grado di volare a un mese, ma non si allontanano dai genitori fino all’inverno successivo. Durante il periodo riproduttivo, la specie predilige ambienti umidi di acqua dolce poco profondi, tendenzialmente eutrofici, con ricca vegetazione palustre a elofite (Phragmites, Typha, Scirpus), circondati da estesi seminativi e prati stabili.
Gli individui che frequentano l’Italia provenivano, in un recente passato, perlopiù dall’Europa centrale e mostravano caratteristiche intermedie; nonostante la classificazione tassonomica incerta e le ipotesi discordanti, in linea di massima si riteneva che tale popolazione appartenesse alla sottospecie orientale. L’Italia è interessata dalla via di migrazione centro-europea (Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, ecc.), a differenza della rotta atlantica che raccoglie invece la popolazione nord-occidentale (Finlandia compresa) e quella carpatico-danubiana che convoglia i nidificanti dell’Est-europeo nelle aree di svernamento del Mar Nero. I primi movimenti si rinvengono generalmente in ottobre e il ritorno verso i siti di nidificazione già dai primi di febbraio. Dal 1990 in poi, in Italia, si è potuto apprezzare un incremento complessivo dello status della specie in termini di contingenti di presenza e di areale di distribuzione, sia come migratrice sia svernante sia come riproduttori.
Questo incremento a livello nazionale trova riscontro anche a livello locale nel Sito di Interesse Comunitario IT4040009 Manzolino (MO)/Tivoli (BO – per informazioni e visite guidate per gruppi e scolaresche, contattare la mail: info@sustenia.it) e nelle altre zone umide e vallive della Rete Natura 2000 della Pianura modenese e bolognese, quali le Valli di Mortizzuolo (Valli Mirandolesi), l’Oasi la Rizza di Bentivoglio – solo per citarne alcune – che si vanno ad aggiungere ai comprensori tradizionalmente frequentati e di maggiore importanza, in Emilia Romagna, come la Bonifica del Mezzano (FE), il cui Sito (Zona Protezione Speciale IT4060008) ricade parzialmente nel Parco regionale del Delta del Po e che, per darvi una dimensione, nel 2009 registrava 3.333 presenze censite di individui svernanti. Altri siti molto significativi per la presenza svernante, ma non solo, dell’oca selvatica sono le Saline di Cervia, l’area di Bonifica della Standiana e la Foce del Bevano, il Comprensorio delle Valli di Comacchio (tutte nel Parco del Delta del Po). L’elenco sarebbe più nutrito, sia in regione chsiae fuori (cito solo la Maremma Toscana e le Lagune di Grado e Marano).
Ogni anno a gennaio viene censita la popolazione di avifauna acquatica con l’International Waterbird Census (I.W.C.) che ci conforta sullo stato di conservazione sicuro dell’Oca selvatica. Vi consiglierei una gita nel S.I.C. Manzolino-Tivoli, condiviso tra le Provincia di Modena e il territorio metropolitano di Bologna;
qui, oltre a una buona osservazione con le ottiche giuste (almeno un binocolo 10×50) degli uccelli acquatici dagli appositi punti di osservazione attrezzati, negli immediati dintorni, si possono assaggiare il tortellino tradizionale di Castelfranco Emilia (in provincia di Bologna sino al 1929, oggi provincia di Modena) oppure la versione più bolognese a San Giovanni in Persiceto e Sant’Agata Bolognese (Città della Lamborghini), non perdetevi le mitiche “crescentine” con salumi emiliani, il tutto accompagnato da Lambruschi e/o Pignoletti.
Qui le oche selvatiche sono state censite già da oltre 20 anni, con il primo caso di nidificazione accertata risalente alla primavera del 2003; a gennaio 2023 erano presenti 366 soggetti svernanti (I.W.C). Le abbiamo sedentarie e nidificanti, migratrici regolari e svernanti. Nella check list storica (censitori Leoni, Ravagnani e Rossi) dell’avifauna del SIC-ZPS Manzolino-Tivoli sono annoverate anche: Oca granaiola (Anser fabalis) e Oca lombardella (Anser albifrons) con presenze accidentali, nonché Oca egiziana (Alopochen aegyptiaca) e Oca cignoide (Cygnopsis cygnoides). Queste ultime due sono specie esotiche e di probabile origine aufuga (scappate alla cattività) o provenienti da reintroduzioni.
Perché una quota di loro non trovi più conveniente la migrazione è argomento complesso; va dal cambiamento del clima che rende più attraente una serie di aree geografiche prima più avare di fonti trofiche nei mesi più freddi (ora meno freddi), allo scambio genico tra popolazioni selvatiche e individui semidomesticati e/o ferali che già hanno introiettato la stanzialità e i suoi agi. Vi è da osservare che, qualora partano in rotta di migrazione, le oche selvatiche sono ancora maestre di volo e disposizione in volo. Volando a V ottimizzano il dispendio energetico protratto per centinaia di Km, anche valicando Alpi e Pirenei. Il capo formazione guida in volo davanti, accollandosi maggiore lavoro per tagliare l’aria ma facilitando il volo a tutti quelli che seguono. Se un’oca atterra affaticata viene seguita da altre compagne che tenteranno di aiutarla e di riguadagnare la disposizione precedente o una analoga, per avvantaggiarsi della corrente generata da chi sta davanti. Questa innata capacità e competenza nel lavoro di squadra, nel mettere a disposizione del gruppo la forza di un comando non autoreferenziale, il ricorso all’interscambio e al mutuo soccorso, è stato osservato e traslato dagli umani, con un processo di biomimesi, al mondo organizzativo e di impresa e sta improntando molti formatori di aziende, manager e co-workers. La biomimesi è una recente disciplina che permette di studiare e imitare i comportamenti della natura, al fine di trovare soluzioni innovative e resilienti. Azzarderei che anche le declinazioni sociologiche più moderne di stato sociale attivo, che non lascia indietro nessuno, hanno evidenti connessioni con comportamenti naturali come quelli delle nostre amiche pennute.
D’altronde che le oche abbiano fornito uno dei migliori modelli naturali per lo studio dell’apprendimento innato e appreso nonché delle cause, lo sviluppo, la funzione e l’evoluzione del comportamento animale in generale e in parte interfacciato a quello umano, ne sono testimonianza i lavori dei Nobel Nikolaas Niko Tinbergen (L’Aia 1907 – Oxford 1988) e Konrad Lorenz (Vienna 1903 – Altenberg 1989), padri della moderna etologia, o scienza del comportamento. L’oca Martina descritta ne L’anello di Re Salomone (1949) ha dato modo di comprendere alla scienza le componenti innate (imprinting) comparativamente a quelle apprese, che plasmano il carattere.
La popolazione svernante di oche selvatiche nell’Europa centrale e sud orientale è consistente; nel 2009 era superiore ai 390.000 individui e tutto lascia pensare a un trend in crescita. A questo punto possiamo chiosare che sapere che questa specie che tanto ci ha trasmesso è in buono stato di conservazione in Europa e nella nostra penisola ci rende felici come il ragazzino della fiaba svedese, Nils Holgersson, che inizia a comprendere il linguaggio animale e, trascinato via da una cordicella alla zampa di un’oca chiamata Mårten, compie un viaggio sulla sua groppa. Dalla visuale alta comprende meglio anche gli uomini che stanno là sotto e i loro problemi sociali.
Mi raccomando, se andate a guardare le oche nei canneti, nelle valli, nei punti di osservazione delle zone di protezione e della Rete Natura 2000, fatelo con discrezione e rispetto per l’integrità e la salvaguardia degli ambienti! E, per chi vorrà approfondire, consiglio il museo ravennate di scienze naturali Alfredo Brandolini-NatuRa di Sant’Alberto (RA), dedicato alla fauna, alla natura e all’educazione ambientale.
Ringrazio per i contributi Giuseppe Rossi e Dario Martelli, miei Colleghi.

Ispettore Polizia locale della Città metropolitana di Bologna; Master in Amministrazione e Gestione della Fauna Selvatica presso l'Università Cà Foscari di Venezia