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Il farro delle divinità

L'adorazione nasce a Roma come ricompensa in farro

A volte si percepisce che qualche cosa ci accompagna fin dalla comparsa dell’uomo e allora sentiamo che fa parte di noi. È addirittura presente non solo nel nostro modo di essere e di parlare, ma anche nel rapporto che abbiamo col divino. Per esempio il farro: ci nutre da sempre ma in modo discreto, restando nascosto tra le pieghe della storia e del lessico: è il più antico cereale che sia mai stato seminato nella terra e un ponte efficace con l’ultraterreno.
Il farro ci salta in mente con la sua radice fonetica – in modo spontaneo – se pensiamo alla far-ina. Oppure, in maniera più strutturata, quando ascoltiamo o pronunciamo la parola immolare (dal latino immolāre, composto da ĭn “sopra” e mŏla, la farina di farro che, unita al sale, le vergini vestali usavano per cospargere la testa della vittima prima del sacrificio).
Un atto ancestrale, legato alla sacralità del farro, una sacralità che ritorna di sovente, ritrovata anche nella cattolicissima Divina Commedia di Dante, al canto XIII, quando nel 99° verso il divin poeta paragona la trasformazione dell’anima alla germinazione della spelta (Triticum spelta o gran farro). Ancora prima, Ezechiele lo usava come uno degli ingredienti per il suo pane, secondo il comandamento divino: «Prendi intanto grano, orzo, fave, lenticchie, miglio e spelta (gran farro), mettili in un recipiente e fattene del pane» (cf. Ezechiele 4,9). Oppure l’Evangelista Marco, quando scrive che i Discepoli attraversando un campo di farro ne strappano alcune spighe per cibarsene (cf. Marco 2,26): era lecito all’epoca, essendo di passaggio, raccogliere il frutto dei campi coltivati per il consumo immediato, purché non vi si entrasse con la falce.
Ma, storicamente, il farro propone altri collegamenti con il divino, soprattutto quando la sua farina costituiva la base per la dieta delle popolazioni latine.
Fonti storiche indicano come il primissimo cereale coltivato dai Romani sia stato l’orzo, ma ben presto si passerà al grano. Quale grano? Per 300 anni, l’unico grano dei Romani è il farro (far), Triticum dicoccum, un grano duro senza barbe vestito con le glume (brattee di consistenza cartacea con le quali sono avvolti i chicchi del grano, del riso e di altre graminacee) così aderenti che necessariamente veniva sottoposto a tostatura (pure con la funzione di conservare meglio il cereale) e poi macinato.
È il secondo re di Roma, Numa Pompilio, a prescrivere proprio la tostatura, al punto tale da istituire nel mese di febbraio il rito dei Fornacalia, con cerimonie propiziatorie alla dea dei forni, Fornax. Dal farro prende il nome il più antico matrimonio rituale romano la Confarreatio, in cui gli sposi – o la sola sposa – offrono a Giove una focaccia di farro. L’alta considerazione in cui era tenuto il farro, noto anche come ădōr o far ădōrĕum, è testimoniata dalla ădōrĕa, la ricompensa – appunto in farro – per i soldati vittoriosi: l’adorazione (da ad–orare = pregare) nasce così, come riverenza e atto d’omaggio agli dei o agli eroi, con l’offerta di farro.
All’opposto, un individuo spilorcio e taccagno rischia di compiere un dono disordinato quanto inopportuno… offrendo un misto di cereali, compresi i minori e i meno pregiati, seminato e raccolto tutto insieme (farrago appunto, da cui farraginoso).