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Il pecorino, la nascita di Roma e altre storie

Il Pecorino Romano è uno dei più noti. Evoca immediatamente la gricia, la carbonara, l’amatriciana, la trippa e l’abbinamento con le fave per le scampagnate “fori porta” a maggio. Diciamo che è un ingrediente basilare

Il Pecorino Romano è uno dei più noti. Evoca immediatamente la gricia, la carbonara, l’amatriciana, la trippa e l’abbinamento con le fave per le scampagnate “fori porta” a maggio. Diciamo che è un ingrediente basilare della cucina romanesca. Ma pochi sanno che la stessa nascita di Roma ha a che fare proprio col pecorino.

Occorre, infatti, ricordare che la scelta del luogo dove fondare la città fu determinata dalla presenza di un guado del Tevere all’altezza dell’Isola Tiberina, lungo una via antichissima che collegava la costa tirrenica con le montagne della Sabina, esattamente lungo quella direttrice chiamata Via Salaria, cioè la via del sale.

Ma il sale da dove e per cosa? Da dove è facile: dai campi di sale alla “porta” o “bocca” del Tevere, che poi sarebbe stata Ostia. Nella regione subito a nord della foce si trovavano, infatti, le saline fiorite intorno alla stagno di Maccarese; l’area era detta Campus Salinensis da cui il nome di Via Campana dato alla strada fino all’attraversamento del fiume. Qui, appunto in prossimità del guado, c’era lo stoccaggio del sale e il conseguente mercato, abbinato a quello del bestiame. Da questo punto in poi, la strada prendeva il nome di Via Salaria.

Era la via percorsa ciclicamente da greggi e pastori che svernavano in riva al mare e risalivano in primavera estate verso le montagne appenniniche per i pascoli estivi dove si concentrava la produzione di latte e la trasformazione in formaggio, che notoriamente ha bisogno di sale. Ecco spiegato a cosa servisse un mercato del sale proprio lì.

Sappiamo che in questa regione l’allevamento era principalmente ovino e, di conseguenza, il formaggio era pecorino. Intorno a quel primitivo nucleo nei pressi del guado si coagularono le comunità di villaggi pre e protostorici che dettero origine alla Roma che la tradizione successiva assegnò all’iniziativa di due fratelli nati e cresciuti tra i pastori: Romolo e Remo.

Che nel DNA di Roma ci fosse questa fondamentale componente pastorale lo sappiamo del resto proprio dalla più antica festa che ricordava la fondazione della città, il 21 aprile giorno dedicato alla festa dei Parilia, inizio dell’annus pastoricius, l’anno dei pastori.

Ecco spiegato dunque, il legame esistenziale tra i romani e il loro pecorino, particolarmente salato come la via che ne ha reso possibile la nascita.

LA RIVA ETRUSCA E IL PECORINO TOSCANO

Come abbiamo ricordato, il Campus Saliniensis si trovava a nord di Ostia, vicino allo stagno di Maccarese (oggi scomparso), in un territorio ancora etrusco all’epoca remota di cui parliamo; ma evidentemente i latini occupavano e controllavano questa zona strategica per il sale secoli prima della nascita di Roma e della sua definitiva conquista della città di Veio e della “riva etrusca” del Tevere.

Per parte loro, gli Etruschi avevano lungo la costa tirrenica, fino al confine con i Liguri, diverse altre opportunità per rifornirsi di sale e alimentare il loro fiorente movimento di greggi dalle coste alle montagne appenniniche e la conseguente produzione casearia.

E proprio al confine tra Etruria e Liguria la città di Luni (che dà il nome alla Lunigiana) era famosa per le sue gigantesche forme di formaggio, marcate sulla scorza con un crescente lunare. Per la verità, non è certo se si trattasse di formaggio pecorino o vaccino. Oggi in Toscana lo vantano come antenato illustre del pecorino toscano mentre nella Pianura Padana, per la quale la vicina Luni costituiva l’accesso al Tirreno, lo vantano come antenato del Piacentino-Parmigiano…

I versi de “I pastori” di Gabriele D’annunzio fotografano perfettamente l’uso di percorrere con le greggi i tratturi, tracciati millenari che collegavano l’Abruzzo alla Puglia, perfetto pendant dell’altro andirivieni appena visto sul versante tirrenico.

L’erbal fiume silente

E vanno pel tratturo
antico al piano,
quasi per un erbal
fiume silente,
su le vestigia
degli antichi padri

D’altra parte, proprio la natura mobile dei pastori e la loro vocazione a incontrare periodicamente in fiere e mercati altri portatori di usi, abitudini, specialità diverse ha reso possibile nel tempo il fiorire della grande moltitudine di tipi di formaggi che caratterizza l’Italia, fin dall’antichità.

Oltre a quelli ricordati, i romani amavano il pecorino di Ceba (oggi nel cuneese, ma allora in Liguria) e quello dei Vestini (popolo della regione del Gran Sasso). Sarsina, la città di Plauto, si trovava in Umbria, ma oggi è in Emilia-Romagna. Era famosa per un suo formaggio pecorino a forma di tronco di cono, come certe ricotte salate moderne.

LA STORIA CONTINUA

Sarsina sta lungo la valle del Savio, che mette in comunicazione l’Appennino centrale con il mare Adriatico e dunque le Marche col loro pecorino marchigiano.

Più a sud, risalendo da Spoleto e Terni, l’Umbria moderna ha ereditato con la Valnerina una porzione di quella antica Sabina irrorata di sale dalla Via Salaria, dalla quale eravamo partiti col pecorino romano; che oggi si fa soprattutto in Sardegna, patria indiscussa di una moltitudine di formaggi eccellenti.

Il Lazio e la dirimpettaia Sardegna, Umbri, Etruschi e Sabini, le tre matrici antiche dell’Umbria moderna, per secoli sottoposta alla Roma antica e a quella Papalina.

Nelle vicende di questi popoli affondano le radici delle loro tradizioni casearie, in una storia plurimillenaria che ha forgiato i disciplinari moderni, dalla qualità dei pascoli alle razze impiegate, alla natura animale o vegetale del caglio, al modo di trattare e formare la pasta e di salarla e stagionarla.

Ma in passato il formaggio in generale, e il pecorino in particolare, era visto come cibo rustico, forte e semplice, caratteristico di pastori e contadini; eppure, da sempre ambito come companatico gustoso e nutriente un po’ da tutti, non solo in campagna, ma anche in città.

Quando divenne un cibo “di magro” capace di dispensare proteine nei giorni di astinenza dalla carne, entrò stabilmente nella dieta monastica e dunque in quella di ogni buon cristiano.

Poi avvenne la sua promozione a cibo più universale, prima concesso con parsimonia, poi addirittura obbligato a fine pasto anche ai signori che tuttavia, per continuare a distinguersi dai villani, presero a gustarlo con le pere. Ma questa è notoriamente un’altra storia, che ha anche il sapore di lotta di classe.

Docente del Corso di Laurea Ecocal dell'Università degli Studi di Perugia